H. visti da Holden
Fuori, la stagione si è fatta mite, di una luce perfetta: il cielo scorre oltre il vetro del tettuccio come una serie di cartoline sfogliate alla svelta – prima, un frammento di nuvola; poi, uno stormo di passaggio; ancora dopo, gli ultimi rami di un albero; e subito, un corridoio di fronde. Il volante è reso caldo dal sole, e l’abitacolo ha ancora quell’inconfondibile odore di macchina nuova, di metallo e collante, di ecopelle e stoffa – quel profumo di spazio ancora da riempire, pronto ad essere saturato di storie, e di viaggi.
Poi l’auto si ferma, dove un ragazzo sta attendendo, a bordo strada: è in tenuta sportiva, la maglietta rossa di tessuto tecnico che ondeggia un poco nel vento. Apre la portiera e occupa il sedile del passeggero. Saluta l’autista con un cenno, e un sorriso subito complice. Anche lui indossa una maglietta quasi uguale: gli stemmi degli sponsor, sul petto, sono gli stessi, soltanto il colore è diverso – un blu acceso. In cima al cruscotto, al centro, un ospite insolito partecipa a quell’incontro: una videocamera li osserva silenziosa, come un piccolo occhio curioso. Sarà testimone della magia di quello scambio, della portata rivoluzionaria di quel gesto.
L’auto riparte, e i due includono subito nel loro dialogo quel bizzarro compagno di viaggio, mentre la città inizia a scorrere loro attorno con i suoi viali alberati, le case assolate, i marciapiedi affollati di vita che fluisce nella vita.
La rivoluzione inizia proprio da quei due ragazzi: ad accomunarli è la necessità di scardinare gli stereotipi e farne ghiaia che scricchiola sotto le ruote e che in un momento guizza via, lontano dalla carreggiata, lasciando una strada più pulita, libera – intanto, il tettuccio ora è una cartolina perfettamente azzurra, attraversata dalla scia sottile, e bianchissima, di un aereo.
Il ragazzo al volante ride, e fa cenno all’altro di alzare i capelli dalla fronte, ed esporsi meglio alla videocamera. Lui scuote la testa, divertito: lo farà, sta solo fingendo un po’ di imbarazzo, per tenerlo sulle spine. Poi avvicina il viso alla videocamera e di scatto alza i capelli. Sulla sua fronte c’è un livido scuro. Il ragazzo al volante ride ancora più forte. Lui allora tira fuori la lingua, fa una smorfia, e mostra quella macchia sulla pelle come fosse un simbolo maori. Sono vecchi amici: su un campo da calcio hanno già condiviso decine di lividi simili, e sudore, frenesia, adrenalina, e quella forma di tifo incontenibile e senza schieramenti, e un senso di sfida che è unione, gioco alla pari. Perché in quel campo hanno trovato ciò che troppo spesso viene loro negato: poter prendere parte a qualcosa in cui la propria disabilità non sia l’unico elemento di identificazione, ma niente di più di un presupposto comune per creare una squadra, una caratteristica non meno straordinaria di un buon fiato, di un cuore che si diverte, di una buona strategia d’azione.
Parlano di questo, di fronte a quell’occhio del mondo, perché usare le parole per mettere in discussione le parole stesse è l’unico modo per ottenere un linguaggio che ora va chiamato inclusivo, ma che quando la rivoluzione sarà compiuta sarà semplicemente linguaggio, comune a tutti e tutte, vero mezzo d’espressione universale.
L’auto continua a scorrere sull’asfalto, leggera e senza fretta, e quando i due ragazzi si confidano come fratelli, la luce riflessa dalla carrozzeria fa da cornice a quella loro intuizione, fresca e potente come l’aria che stanno attraversando.
Ed è così che uno spazio minimo – due sedili, e un abitacolo affacciato al cielo – diventa il contenitore di una speranza grande quanto il mondo, di un dialogo che è patrimonio dell’umanità, di una sfida che è già vittoria condivisa, radice nuova per un futuro nuovo. Oltre il vetro del tettuccio, la cartolina di un sole tondo e bianco – quasi una perla, incastonata nell’infinito.
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