La giornata è finita: i piatti sono già stati puliti e riposti nella credenza, il piano cottura non riporta neanche una sbavatura di sugo, e nel buio delle stanze aleggia soltanto un vago sentore della cena – il silenzio è disturbato solamente da un lieve ticchettio di pioggia, oltre la finestra. Il telefono è spento, e il gatto è già sul letto, acciambellato con il muso nascosto tra le zampe.
L’uomo lo raggiunge, immergendosi nell’unica luce ancora accesa: calda e ovattata, viene dall’abat-jour che ha sul comodino, di fianco alla testiera. Quella è la lampada cui affida le sue letture prima di addormentarsi, e subito dopo il suo sonno, che sia carico di sogni o squisitamente vuoto. Quando era piccolo, era la lampada con cui sua madre proiettava ombre di animali sulla parete, raccontandogli avventure straordinarie, per tenerlo lontano dagli incubi. Ha deciso di conservarla soprattutto per questo, oltre al fatto che è bella – la base bombata, in ceramica ricamata d’argento, e il paralume di un tessuto che non saprebbe identificare, ma che è piacevole al tatto, e di un verde tremendamente rilassante, e questo gli basta.
Nel dormiveglia, in quell’attimo di sospensione magica prima della densità del sonno, qualche volta si chiede quante altre abat-jour come la sua ci siano nel mondo, quante siano accese nello stesso momento, e quante no, e di chi siano state le mani che l’hanno assemblata, modellata, voluta esattamente così com’è.
È il grande incanto degli oggetti: quella base ricurva, e quel paralume così particolare, sono diretta manifestazione della scelta e del gusto dell’artigiano che ha voluto che quella luce fosse diffusa in un certo modo, che suscitasse una determinata emozione, e che anche la vista ne fosse appagata, in quell’attimo prima del buio. In fondo, da questo intento, l’espressione di un singolo creatore diventa piacere condiviso: tra tante forme, e colori, e materiali, qualcuno finisce per preferire proprio quella forma, quel colore, quel materiale, con cui illuminare lo spazio prima del proprio sonno, quasi ne fosse un prolungamento, privato e originale.
D’altronde, nel momento in cui vengono realizzati, e vanno nel mondo, gli oggetti si svestono della propria carica individuale per trasformarsi in contenitori universali, in ricettori di vite, in incubatori di storie; e il loro design diventa il linguaggio comune a tutte le anime affini – anche quella del protagonista di questo breve racconto.
L’uomo ora sta per abbandonarsi al sonno. Ha giusto un ultimo istante di lucidità: pensa che forse, un giorno, anche lui userà quell’abat-jour per proiettare storie con cui incantare qualcuno. Poi tira la catenella di metallo che pende dal telaio, e permette anche a quell’ultima luce di riposare.
Sì, forse è un pensiero davvero troppo grande da pensare. Quel che è certo, è che le cose che creiamo hanno la forma delle nostre intuizioni, dei nostri desideri, e spesso, se siamo capaci di sognare qualcosa, siamo poi anche in grado di realizzarla, e l’aspetto che diamo a quella materia, il suo design appunto, è proprio ciò che, nella realtà, più si avvicina a un sogno: qualcosa di insolito, caratteristico, nuovo, ma comunque carico di un’aura familiare.