Milanello, 20 giugno 2025, Finalissima BMW IN TOUR
Quest’anno sono state tredici le tappe del BMW in Tour di Insuperabili. Tredici tappe in tredici città italiane che hanno, nel loro territorio, sia una concessionaria BMW che una sede di Insuperabili: a sfidarsi, infatti, sono state squadre provenienti da queste due realtà.
Abbiamo avuto l’opportunità di parlare con Davide Leonardi, fondatore, presidente e project manager di Insuperabili, accompagnato da Carlo Morizio, PR manager, che Davide definisce un vero e proprio Virgilio di questo tour: è stato lui ad intervistare, attraverso queste tappe, i protagonisti del team Insuperabili.
Davide e Carlo hanno gli occhi che brillano, e due grossi sorrisi. Si vede che sono fieri di raccontarci la loro realtà. Che sono sportivi, abituati a fare squadra, lo capiamo subito: ci siamo appena incontrati eppure ci sentiamo già membri di una stessa squadra, come un piccolo gruppo di giocatori che si confida, in spogliatoio, dopo una bella partita. Quando risponde alle nostre domande, Davide ha nella voce lo squillo cristallino di chi parla del proprio lavoro, della propria missione, con un amore sconfinato e un entusiasmo senza pari.
Come è nato il rapporto tra BMW e Insuperabili?
Insuperabili ha una sede a Caserta, e la nostra referente è la moglie di Gaetano Pascarella, che lì è un dealer della sede BMW. Tre anni fa, Gaetano e io ci stavamo interrogando su cosa organizzare per una sponsorizzazione legata a un suo concessionario: in quel momento è nata l’idea di un progetto che prevedesse di far giocare i suoi dipendenti insieme ai nostri atleti. Per questo poi, grazie a lui, siamo entrati in contatto con ACIB, e abbiamo detto loro che oltre a Caserta avremmo voluto coinvolgere anche i dealer delle città in cui già era presente una delle nostre Sedi. L’idea è subito piaciuta a BMW, così abbiamo iniziato a fare di tutto per realizzare questa sorta di tour che si sarebbe svolto a bordo di una BMW, dentro la quale, ogni anno, avremmo intervistato persone diverse, parlando di un concetto differente. E così è stato: il primo anno il tema era la comunicazione inclusiva, e l’abbattimento di alcuni luoghi comuni inutili; quest’anno, invece, abbiamo voluto parlare di “limite”, per spiegare cosa fosse da un punto di vista Insuperabili. Il prossimo anno, quindi, ci sarà un’altra tematica.
Quali erano le emozioni e le aspettative all’inizio?
Appena abbiamo capito che il progetto proposto a BMW si sarebbe concretizzato, l’aspettativa è diventata altissima, soprattutto perché avremmo avuto a che fare con un brand che rappresenta l’eccellenza nel mondo: essere affiancati a loro ci dava un fortissimo senso di responsabilità, soprattutto nel voler cercare di fare sempre bene – e lo stesso ci è successo quando abbiamo iniziato a collaborare anche con il Milan. Col tempo poi ci siamo ritrovati a promuovere l’iniziativa in luoghi prestigiosi, come Casa Milan e la BMW House, e le aspettative allora sono diventate ancora più alte, sotto tutti i punti di vista. All’inizio, quindi, da parte nostra c’era un fortissimo desiderio di essere all’altezza della situazione, soprattutto perché era un dovere che avevamo nei confronti dei nostri atleti. In merito a questo, voglio specificare una cosa: tutte le volte che facciamo delle attività in cui riusciamo a coinvolgere i nostri atleti, un’attenzione assoluta nel far sì che tutto quello che facciamo non venga strumentalizzato deve essere la base di ogni intento. Tornando a parlare del progetto, ci premeva che nella sua totalità fosse qualitativamente impeccabile, proprio perché eravamo accanto a due eccellenze mondiali: eravamo consci dell’enorme risonanza che avrebbero portato a Insuperabili. Fin dalle prime call, le prime interviste, le prime presentazioni, abbiamo capito che stavamo facendo qualcosa di molto diverso rispetto a tutte le altre volte: la relazione umana che abbiamo avuto fin da subito con BMW e i dealer è stato un vero giocare insieme, da compagni di squadra a tutti gli effetti, e questo ha reso tutto di gran lunga più facile.
Come è nata per te la passione per il calcio? E come hai capito che ti avrebbe portato a realizzare una cosa come Insuperabili?
La prima parola che ho detto a mia madre, quando ero piccolo, è stata “tummi”, che era il mio modo di riprodurre il suono che fa il pallone quando rimbalza per terra. Quindi né “mamma” né “papà”, ma proprio questo verso già legato a un pallone da calcio. Ho iniziato a giocare quando avevo cinque anni, e mi piaceva tantissimo, anche se fino agli undici non ci ero molto portato: in tanti mi dicevano che non era uno sport nelle mie corde. Poi, superata quell’età, mi è scattato qualcosa e la mia passione si è trasformata anche in una disciplina che riuscivo a praticare discretamente bene: posso dire anche di aver avuto diversi riconoscimenti a livello dilettantistico. Ma nel calcio, la mia soddisfazione più grande era sempre questa: il mio unico obiettivo era quello di giocare, e non per diventare un professionista, ma per farlo e basta, instancabilmente, perché la mia passione per il pallone era inesauribile. Ho avuto la fortuna, dai dodici ai ventitre anni, di potermi allenare nel mio campo di riferimento anche cinque o sei volte a settimana: era proprio il mio posto, il mio luogo protetto, dove ho imparato a vivere, anche grazie alla mia famiglia e ai miei allenatori. Poi ho dovuto un po’ ridurre la frequenza – giocavo tre volte a settimana, a livelli più bassi – e nel frattempo studiavo management sportivo all’università. Subito dopo, come primo impiego, ho potuto lavorare per una società sportiva che mi ha insegnato gran parte di quello che so adesso. Poi ho cambiato lavoro, ma ho continuato a mantenere la passione per il calcio occupandomi di un progetto di perfezionamento calcistico insieme ad Attila il mio ex Direttore ed Ezio il mio miglior amico. Da lì, ho conosciuto Micaela, la cognata di Attila, una ragazza con sindrome di Down, appassionatissima di calcio e tifosissima del Milan. Un giorno, tutti insieme le abbiamo chiesto se voleva iniziare a giocare a calcio, e ci siamo offerti di cercarle una squadra. Era il 2011, e pensavamo fosse una cosa facile, ma non è stato così. Non si trovava nessuno che fosse disposto a inserire una ragazza come Micaela. Allora abbiamo iniziato a studiare il contesto internazionale, e a intercettare delle notizie da Russia, Ucraina e Turchia, in cui si diceva che il movimento paralimpico calcistico era già qualcosa di esistente e riconosciuto (questo perché c’era il reinserimento dei mutilati di guerra tramite lo sport). Da lì, abbiamo incontrato il movimento Football for Disabled in Gran Bretagna, abbiamo raccolto le nozioni che ci servivano e ci siamo detti “ok, proviamo a creare un luogo che possa davvero accogliere tutti, a prescindere dalla tipologia di disabilità”. Luogo che però doveva avere l’ambizione di diventare la migliore scuola calcistica esistente, in cui l’insegnamento del calcio fosse qualcosa di assolutamente serio, basato su forti competenze sportive, psicologiche ed educative. E così è stato, ed è bello pensare che comunque sia qualcosa nato un po’ per esigenza, e un po’ per caso.
In questi tredici anni di attività con Insuperabili, hai anche scoperto delle cose di te stesso, nel frattempo?
C’è sicuramente un lato di sensibilità che questo progetto ha rafforzato e amplificato, sensibilità che non mi era mai capitato di vivere in altri lavori – con Insuperabili mi succede molto spesso di commuovermi ed emozionarmi. Un altro lato di me che sicuramente ha accentuato è quello dell’ambizione, e soprattutto ha chiarito cosa sia per me questa spinta, che va ben oltre il solo lato sportivo; ambizione che quindi è il desiderio di fare sempre il meglio possibile, anche andando oltre qualche mio limite, pur di raggiungere determinati obiettivi. Per tornare a Insuperabili, ho capito anche che questa ambizione è l’unico modo per assicurare al più grande numero di persone possibile di poter avere quel pezzettino in più che ogni tanto la vita non gli concede – più la nostra realtà performa in maniera impeccabile, più si riesce a dare una possibilità a tutti, mettendosi davvero al servizio del mondo. Un’altra cosa che mi ha fatto scoprire di me, e me lo ricorda ogni giorno, è quanto io mi senta privilegiato a poter fare questo lavoro, soprattutto nella mia posizione: grazie a questo progetto, mi rendo conto di quanta bellezza e quanta bontà ci sia nel mondo; a differenza di quanto si pensa, più andiamo avanti, più ci sono segnali evidenti che molte cose stanno cambiando per il meglio. In questo, per Insuperabili, una cosa di cui sono enormemente grato è che ogni realtà con cui collaboriamo, o che anche solo incontriamo sul nostro percorso, è sinceramente interessata al nostro progetto, e condivide profondamente i nostri valori. In generale, non è sempre tutto rose e fiori, ovviamente, però spesso gli aspetti positivi sono tantissimi, e penso che questo sia qualcosa a cui dare sempre più risalto. Anche perché la positività è contagiosa.
Quali sono le emozioni che corrono nell’aria tra gli atleti e le atlete in un momento come la finalissima? E quali sono le emozioni che nascono in te ad assistere a un evento così?
Per loro è stato davvero un riconoscimento. Abbiamo convocato gli atleti che due settimane prima erano diventati campioni d’Italia: abbiamo disputato il campionato FIGC DCPS, che è il campionato principale di tutto il circuito paralimpico, e nei tre livelli dai quali è composto abbiamo vinto lo scudetto al primo e al secondo livello. Quindi, come ulteriore premio per i ragazzi, li abbiamo convocati a disputare la finalissima a Milanello: un campo che ha visto giocare campioni di fama internazionale. Infatti, l’emozione per loro è stata bellissima proprio per il contesto; il fascino di poter giocare lì era per loro qualcosa di impagabile. Ci siamo accorti di questo nel momento in cui sono entrati negli spogliatoi, che erano proprio come quelli che vedevano in televisione, molto più grandi e molto più belli di quelli a cui erano abituati. E in momenti come questo, ai nostri ragazzi ripetiamo spesso: “oggi è un’occasione unica, ma sappiate che il nostro lavoro vuole portarci a far sì che questo non sia occasionale, ma che diventi qualcosa di quotidiano”. L’ambizione di vincere la finalissima era alta – hanno la consapevolezza di essere dei giocatori forti – e la voglia di riscattarsi dall’anno prima, in cui avevamo perso, era fortissima. Questo ci ha portato fortuna, infatti abbiamo vinto – anche se solo per un goal – affrontando difficoltà per noi non indifferenti: per fare un esempio, la partita era a un undici, numero a cui non siamo assolutamente abituati. La mia, invece, è stata un’emozione legata alla consapevolezza di tutto ciò che eravamo riusciti a realizzare, durante l’anno, sia da un punto di vista sportivo e di crescita, sia nella relazione con il Partner: qualitativamente parlando, BMW in Tour è maturato in maniera esponenziale, e tutti i coinvolti – i rappresentanti dei concessionari, i dealer, i dirigenti, i membri del Milan – erano visibilmente soddisfatti del progetto, e questo mi ha fatto sentire ripagato di ogni sforzo, di tutta la fatica fatta per far sì che fosse un evento impeccabile, in una cornice di altissimo livello. Ho visto nascere una sintonia tra ospiti e atleti che, oltre ad aver dato a tutti una gioia immensa, ha sicuramente alzato la nostra asticella, anche agli occhi di realtà immense come BMW e Milan.
Ci racconti degli aneddoti cardine della storia di Insuperabili?
Me ne viene in mente uno, dei primi mesi di Insuperabili, che forse è un po’ un preludio, un simbolo insomma, di quello che vorremmo riuscire a fare. Abbiamo diversi testimonial, e alcuni di questi sono De Silvestri e Baselli. Anni fa, quando giocavano al Toro, sono venuti da noi a fare un allenamento. Di solito condividevamo il campo con una squadra dilettantistica, e proprio in quel momento anche loro stavano facendo allenamento. A un certo punto, mentre Daniele e Lollo giocano insieme ai nostri atleti, dalla parte opposta del campo arrivano dei ragazzini di tredici e quattordici anni: vogliono i loro autografi e chiedono di poter fare delle foto con loro. In quel momento, un nostro atleta prende dalle mani di Baselli il foglio che lui stava firmando, gli sfila la penna dalle dita, e fa la propria firma, come stesse facendo un autografo a Baselli stesso. Tutti si mettono a ridere per la simpatia dell’accaduto, ma poi i ragazzini iniziano a chiedere davvero anche la sua di firma, e lui allora, in maniera molto sfrontata e splendidamente reale, va e si sostituisce a Baselli e inizia a firmare i fogli con soddisfazione. Lui, ovviamente, era inconsapevole di ciò che stesse facendo: per lui era naturale dover distribuire i propri autografi, dal momento che lui era il calciatore in campo. Fa sorridere, è vero, ma come dicevo prima è un po’ ciò a cui vorremmo arrivare con il nostro calcio: se ci pensiamo bene, vent’anni fa in pochissimi avrebbero chiesto a una calciatrice un autografo o un selfie, oggi invece il calcio femminile è pieno di questi avvenimenti; perché tra vent’anni non potrebbe succedere la stessa cosa proprio ai nostri atleti?
Per concludere, ci sono delle anticipazioni sulla terza edizione di BMW in Tour?
Innanzitutto, siamo sicuri che ci sarà. Per il resto, ci piacerebbe cambiare un aspetto, e proporre a BMW una sorta di novità: far sì che, prima della partita, i dipendenti dei concessionari scendano in campo soprattutto per allenare i nostri atleti, magari quelli di una categoria più bassa. Potrebbe essere l’opportunità di trasmettere come il gioco sia anche un’occasione per dare all’altro: d’altronde, un allenatore è una persona che dà, che mette a disposizione la propria conoscenza, senza voler nulla in cambio, come un vero e proprio dono.
Davide si prende poi qualche minuto per parlarci anche di come per lui sia fondamentale curare il terzo tempo, dopo allenamenti e partite: se il campo è la dimensione dove sono più evidenti l’ambizione e la forza di Insuperabili, il terzo tempo è quella dove si può cogliere al meglio l’anima più intima del progetto, per questo ha premura che gli atleti possano poi mangiare, rilassarsi, confrontarsi, stando ancora insieme.
Certamente, Insuperabili vuole essere un ambiente famigliare, ma più che a una grande famiglia – per quanto in un certo senso sia anche così – preferisce somigliare a una vera e propria squadra: una moltitudine di cuori unita non dal sangue, ma da una passione incontenibile per lo stesso sport, e tutti gli straordinari legami che permette di costruire. E, come dicevamo già all’inizio, Davide è riuscito a far sentire subito anche noi parte di quella squadra.