Pescasseroli è incastonata tra i boschi del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. È una cittadina fatta di basse case di legno e pietra, di panchine immerse nell’ombra di faggi e pini, di strette vie di mercato, di ristoranti storici e di piazze tappezzate di dehor stracolmi di turisti affezionati, di tutte le età. Una coppia di zampognari ronza loro attorno, regalando a tutti una colonna sonora perfetta. È una cittadina dove poter lasciare la propria bici appoggiata a un palo, senza catenaccio, dove poter ascoltare il vento che corre fra le alture, dove poter guardare il cielo e sentirsi un po’ più vicini alle nuvole: è proprio questa la sensazione che si ha a camminare per le sue vie, di essere al centro di qualcosa di primordiale, qualcosa che è perfettamente leggibile negli occhi di chi ci è nato, a Pescasseroli. Nei loro sguardi, infatti, c’è un’accoglienza antica, sincera, divertita: è evidente che sono orgogliosi della loro terra, e del fatto che sia tanto amata anche da chi la sta scoprendo, sentiero dopo sentiero.
A proposito di sentieri, uno di questi porta nel cuore del Parco, dove l’asfalto lascia spazio a carreggiate di pietra e terra. Il transito è consentito soltanto a piedi, o a cavallo, e capita di vederne tantissimi, sia montati da giovani fantini, che in fila indiana attraversano una radura, sia liberi al pascolo, sulle creste delle colline più morbide – i puledri si distanziano dalle madri correndo dinoccolati, come per collaudare le zampe sottili. Questa strada di ciottoli e polvere, dopo aver costeggiato versati di boschi ricoperti di muschio e prati carichi di fiori, giunge a una biforcazione: da una parte prosegue all’interno delle Foreste Vetuste, patrimonio UNESCO dal 2017, dall’altra scende in un breve avvallamento, per infilarsi in un’altra zona del Parco dove, lungo i percorsi denominati C1 e C2, un incontro insolito attende i camminatori: dietro un masso, agganciate alle fronde di un albero oppure all’interno di un tronco immenso, appaiono diverse sculture di una bellezza delicata, perfettamente coerenti per forma e materiali all’elemento naturale cui sono installate.
Arteparco – questo è il nome dell’operazione – è un’occasione di meraviglia rara, un’occasione per ammirare l’arte contemporanea immersa nei paesaggi mozzafiato offerti dal Parco.
Il progetto ideato e curato da Paride Vitale (che a Pescasseroli ci è nato e cresciuto) è giunto all’ottava edizione e, quest’anno, ha visto coinvolto l’artista Velasco Vitali, pittore e scultore del Lago di Como. Abbiamo avuto la fortuna di assistere all’installazione della sua opera, “Stasis”, e di trascorrere del tempo con lui e il suo fedele compagno di viaggio, un dolcissimo cane di nome Teo. L’opera è formata da diverse componenti: un sostegno di metallo a quattro braccia immerso nel terreno, per permettere un aggancio sicuro; poi un tronco grezzo, semi-lavorato, di quercia, alto cinque metri, che ricrea una sorta di colonna naturale, sormontata da un capitello decorato; infine, una scultura in metallo che subito ci ha ricordato un grosso cane (abbiamo domandato se Teo fosse stato d’ispirazione) ma che in realtà rappresenta un lupo appenninico, specie autoctona tornata al centro di un delicato discorso ambientale e simbolo archetipico della natura selvaggia – Velasco si è subito detto felice di questa collaborazione e fiducioso di aver restituito il proprio sguardo sull’anima del Parco.
Anima che è rimasta intatta grazie al lavoro continuo di persone che vivono il Parco come un tempio di cui avere cura e profondo rispetto. Manifestazione diretta di questo è il Centro Visita di Pescasseroli, area dove, oggi, sono ospitati alcuni animali feriti o con problemi tali da non consentire loro di vivere allo stato selvatico. Nello specifico: un istrice, due caprioli, due cerve e un orso bruno europeo dal triste passato di animale da compagnia in una villa privata. Tra i suoi grandi spazi verdi, Luciano Sammarone, il direttore del Parco, ci ha spiegato cosa significhi vivere e gestire l’immensa responsabilità che comporta avere cura di quel territorio: è un lavoro molto intenso e vario – aspetti che gli fanno amare la sua professione – che coinvolge numerose persone e altrettanti sguardi diversi sul Parco, il cui obiettivo è sempre far conoscere l’area nel pieno rispetto delle regole che la natura impone. Il guardiaparco Massimo D’Alessandro, invece, ci ha regalato la prospettiva di chi vive tutti i giorni quelle foreste dall’interno, arrivando a conoscere gli angoli più selvaggi, ed essere protagonista di momenti indimenticabili. Una volta, ci ha raccontato, stava seguendo delle orme nella neve e non poteva fare a meno di sentirsi osservato; a un certo punto, sul suo percorso, è apparso il lupo a cui appartenevano quelle tracce, come a dichiarare finalmente una presenza che fino a quel momento era soltanto un presagio. I due – Massimo e il lupo – si sono guardati per un momento. Poi, come silenziosi compagni di cammino su quel tratto di montagna, ognuno ha proseguito per la propria strada, conscio e rispettoso dell’esistenza dell’altro.
Tra uomo e animale, tra natura e arte, qui la convivenza si gioca su un equilibrio magico e sottile. Noi abbiamo avuto la fortuna di vederlo compiersi, questo equilibrio, con la messa in posa di Stasis. Ci siamo dati appuntamento al Maneggio Vallecupa, l’ultimo stabilimento alle porte del Parco da cui partono le file di visitatori a cavallo. Siamo saliti sul pick-up della squadra di Paride e, come un’allegra carovana, ci siamo accodati al trasporto del tronco e della scultura, scortati anche dalla Guardia Forestale. Sotto un cielo macchiato da qualche nuvola – al loro passaggio, il sole proiettava delle grosse ombre sulla montagna – ci siamo infilati nel Parco, seguendo l’andamento del sentiero principale: quei boschi avevano un’aria familiare, quasi fossero una foresta magica saltata fuori da una fiaba.
Superato l’avvallamento e un corridoio di alberi, siamo sbucati in un’area aperta, di grande respiro, con una vista perfetta sui versanti della montagna: sulla destra, agganciato a un grosso albero, la prima opera di Arteparco: “Animale – Vegetale”, il cuore bianco di Marcantonio. Subito dopo è apparsa l’opera di megx, “Rinascita”, una figura femminile di legno e corteccia che si stende, serena, verso il cielo. Poi, dopo una morbida salita e una curva intrecciata agli alberi, abbiamo proseguito sul versante destro incontrando altre quattro opere: gli “Specchi Angelici” di Matteo Fato, delle cornici che inquadrano la meraviglia del paesaggio; “Un tempo è stato” di Alessandro Pavone, un imponente braccio umano di legno, appoggiato sull’erba, con il palmo aperto verso l’alto, come un’offerta rivolta al volo dei falchi; in lontananza, su una roccia bianca, “Radicorno” di Sissi, un lungo corno di ceramica, attorcigliato, dalla punta multicolore; e “Liberi tutti” di Valerio Berruti, i contorni di un bambino che sbuca da un masso.
Stregati dall’atmosfera, siamo scesi dal pick-up e abbiamo deciso di proseguire a piedi: ci siamo infilati in un bosco fitto e scuro, e abbiamo raggiunto “Totemi” dell’Accademia di Aracne, due faggi rivestiti da musi di animali dai colori vivaci, ricamati all’uncinetto, avvolti ai tronchi, alti quasi otto metri.
A ogni tappa di questo percorso, è stato evidente quanto la natura determinasse la scelta dei materiali, delle forme, e delle impressioni trasmesse. Giunti nel luogo scelto da Velasco, poi, questa evidenza si è rafforzata. Lo scenario era mistico: uno slargo di prato e sterpaglie, segnato da grossi tronchi caduti, ricoperti di muschio, licheni, e edera, circondato da un fitto bosco di faggi altissimi, quasi l’area rituale di un mago silvano.
Lì, ben radicato a terra, il sostegno di metallo attendeva di reggere la colonna. Per realizzare questo passaggio delicato, Mirino – soprannome di Vincenzo, un operaio storico del Parco, uomo sottile e comunque possente, dai vispi occhi azzurri – si è subito dato da fare insieme ai suoi colleghi. L’innalzamento ha richiesto del tempo: era un lavoro di precisione, e andava gestita la coincidenza di diversi elementi della base e della colonna – intanto, un branco di cavalli con dei campanacci al collo è transitato per il bosco, in cerca di erba da brucare, diffondendo una musica leggera. A un certo punto, il cielo si è coperto di una patina grigia e una pioggia lieve, quasi impalpabile, ha iniziato a scendere sulla scena. Un operaio, con un movimento di una leva preciso e istantaneo, è riuscito a far combaciare ogni parte, e la colonna si è eretta solida sulla sua base di metallo. Il lupo, poi, è stato presto fissato sulla sommità, e la laccatura rossa utilizzata per proteggere l’apice del tronco, faceva risplendere il suo ventre di un bagliore sanguigno. Una volta completata, siamo tutti rimasti qualche istante a guardarla: l’aspetto era monumentale, così coerente con l’ambiente circostante da sembrare essere un frutto spontaneo della terra, cresciuto nei secoli.
L’aspettativa del montaggio ha poi lasciato spazio alla soddisfazione. Abbiamo parlato con Mirino e Velasco come veri compagni di viaggio: l’opera era il perfetto connubio di uno sforzo fisico, molto materiale, e di un intento artistico sublime, che riconnette l’anima a una dimensione pura, primitiva. È un’emozione difficile da descrivere, la consapevolezza di aver assistito a un momento così, unico, irripetibile, in un contesto ai limiti del sogno – se mai avremo occasione di tornare ai piedi di quella colonna, saremo tra i pochi a poter dire di averla vista nascere.
Emozione che abbiamo ritrovato anche negli occhi di Paride quando, davanti a un camino acceso, ci ha raccontato come Arteparco sia una creatura in continua evoluzione, seminata nel tempo con entusiasmo, grazie al contributo di tante realtà, tra cui BMW stessa, per cui Paride ha lavorato, in passato.
Per festeggiare l’installazione di Velasco abbiamo cenato tutti insieme al ristorante Plistia, attorno a un lungo tavolo, e il caso ha voluto che finissimo seduti a uno dei capi. Di fronte a noi c’erano due file di persone prese a chiacchierare, ridere, scambiare impressioni, e dare libero sfogo alla propria euforia: eravamo tutti lì – anche Teo, e Ornella Franca Maria e Ettore, i cani di Paride – finalmente riuniti a condividere una magia che un po’ ci commuoveva di dover lasciare, il giorno dopo.
In quel momento, una cosa è stata subito chiara. La bellezza, in questo mondo, è questione di condivisione: qualcosa si può dire realmente riuscita soltanto se è frutto dello sforzo combinato di più braccia, di più menti, altrettanti ingegni, e cuori uniti dallo stesso obiettivo. E l’incanto, alla fine, è fatto di poche cose grandissime: un gruppo di persone che, attorno a un tavolo, decide di realizzare qualcosa di nuovo, ognuno conscio dei propri limiti, del proprio valore, per poi tornare attorno a quello stesso tavolo e sorridere, incredulo, di come alla fine ce la si è fatta – l’idea è diventata realtà, e quella realtà ora può essere donata al mondo, anche per celebrarlo.
Pescasseroli è una cittadina fatta di basse case di legno e pietra, di panchine immerse nell’ombra di faggi e pini, di strette vie di mercato, di ristoranti storici e di piazze tappezzate di dehor, e di cuori che bruciano di una luce pari a quella del tramonto tra le montagne: rossa, viva, immortale.