Il processo dell’intercultura, secondo il filosofo Salvatore Natoli, è irreversibile. Nel corso della Terza Giornata interculturale Bicocca realizzata dall’ateneo milanese in collaborazione con BMW Italia nel 2014, Natoli definì l’intercultura come “futuro lussureggiare dell’ibrido” in quanto la storia muove a favore dell’ibridazione perché, alla fine, ha vinto il nuovo. Gli uomini sono uniti in totalità sulla terra in società e sono distribuiti in popoli diversi. Muoveranno verso il progresso se saranno capaci di convergere verso la totalità, mantenendo la propria diversità”.
Ma le differenze culturali hanno prodotto forme di vita diverse, tanto da arrivare a non capirsi e tali da tradursi spesso in conflitti. “Il nostro obiettivo – ricordava Natoli – deve essere quello di fare riapparire la comune umanità. Il linguaggio è la prima forma di differenziazione in quanto le lingue in sé non sono comunicative, ci deve essere un atto interpretativo”. Ma imparare una lingua non significa, da solo, entrare in una certa mentalità. Per completare il cammino, bisognerebbe imparare anche miti, riti, credenze, sintassi, simboli.
“A questo punto – affermava Natoli – è indispensabile soffermarsi sul concetto di morale, intesa come modo in cui gli uomini distribuiti sulla terra stanno al mondo e si legano insieme. Se gli uomini devono essere conformi a regole, questo fa parte della morale”. Quindi la morale precede la vita dei soggetti, sin dalla nascita, i soggetti sono sottoposti a regole che precedono la loro nascita e che sono indispensabili per vivere in comunità, la morale dunque è una regola che, è vero, può essere repressiva, ma originariamente era istruttiva. Riprendendo il tema già espresso in precedenza, le società sono diverse perché hanno miti, riti, culture diverse, ma ciò che tiene unito un popolo è la memoria culturale. Che non è personale. È rituale e passa di generazione in generazione. Non attraverso i genitori, ma attraverso le istituzioni sociali.
Il rito si concretizza nella dimensione immaginaria del mito. Quando popolazioni diverse si incontrano questa diversità è percepita come estraneità. Come giudizio di valore. Prevale l’idea che il mio mondo sia il migliore. Se l’altro la pensa nello stesso modo, il conflitto diventa inevitabile. La globalizzazione ha messo insieme, in tempi brevi, distanze enormi. Questo è il grande problema: non c’è stato il tempo per la mediazione.
“Già nell’antichità − ricordava Natoli − Alessandro Magno aveva capito che, per creare unità nel suo impero, era necessario integrare i popoli e aveva favorito il matrimonio misto. Lui stesso aveva sposato una donna persiana: si era reso conto che era l’unico modo per unire culture diverse. Già secoli orsono un uomo così importante aveva percepito il grande rilievo dello ius soli. Intercultura deve essere, allora, una contiguità di vita. Non in senso intellettuale, ma reale. Aristotele affermava che per parlare insieme ci deve essere un terreno comune”.
In sintesi, la comunicazione deve passare attraverso la contaminazione. In questo periodo viviamo una doppia crisi. Da un lato, mondi eterogenei che si incontrano poi si scontrano. Dall’altro, ogni mondo perde la propria identità. Ecco allora la fondamentale rilevanza della ricerca e condivisione di una identità comune.
“È straordinario − rammentava Natoli − come in tutte le culture troviamo la regola d’oro che sta alla base del vivere insieme: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Nella diversità delle culture c’è il principio persistente che lega gli uni agli altri ed è il reciproco rispetto considerato come punto di leva del rispetto universale. Ma ancora più significativo sarebbe attuare la versione positiva della regola d’oro: fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”.